Le contaminazioni storiche sociali e politiche hanno influito alla creazione di piatti e la storia racconta varie situazioni che hanno innescato meccanismi culinari apprezzabilissimi.
La storia narra della figura dei monsù, nomignolo che sembrerebbe voler richiamare a qualche strana tribù appartenente all'Africa, in realtà il nome rappresenta a tutti gli effetti una cucina di fusion franco sicula. Nel settecento la nobiltà siciliana, soprattutto il gruppo ristretto della grande aristocrazia: principi, duchi, conti, consumava cibi preparati secondo le regole fissate dalla grande cucina francese del seicento.
Quest'ultima aveva finito col dominare non solo nelle corti di Napoli e in quelle della penisola iberica, ma in tutti quei paesi dove la lingua ufficiale dei signori era il francese e non c'erano norme religiose che condizionavano le regole culinarie.
La grandeur di Luigi XIV si era imposta nel mondo mediterraneo come potenza egemona e come cultura dominante e attraverso mille rivoli: libri, viaggi, matrimoni, ambascerie, scambi professionali e commerciali monacazioni e incarichi prelatizi, era diventata anche regola alimentare.
Non c'era aristocratico con palazzo proprio che non avesse nella cucina palermitana un cuoco francese, il monsù una cucina valevole e chic che non teneva solo conto del burro ma anche dell'olio; l'uso del pomodoro consentiva di poter servire insieme a salse raffinate come la beschamel anche sughi robusti che insaporivano le carni e i timballi di pasta; si affiancavano ai delicati consommé i saporosi brodi di pesce azzurro.
Una serie di piatti che utilizzavano quanto la calda terra di Sicilia produceva e oggi potremmo paragonarla alla cucina meditteranea per eccellenza, prodotti freschi e tanta tanta creatività con gusto.
Una storia culinaria miscelata alla grande tradizione isolana greca, romana, araba, ebrea, normanna e spagnola.
Un esempio? Il trionfo di colori e sapori della cassata...